venerdì 27 dicembre 2013

Strenua lotta





E' in quegli spazi di rumoroso silenzio,
in quelle intercapedini del cuore,
che trova spazio il più profondo dolore.


Arriva all'improvviso,
dritto,
lo vedi: ti è di fronte
e colpisce
sempre più forte.

Un pugno violento allo stomaco, 
un vuoto d'aria che blocca il respiro,
e la parola si smorza,
soffocata.

Mentre cerchi di opporre resistenza,
il corpo si piega in due, 
e in quel ritrarsi
si espone a una raffica violenta di colpi.

Le spalle si fanno dolenti, pesanti, 
gravate da un macigno insopportabile.

Ogni volta che accade 

sembra quella buona per la sconfitta,
quella in cui è impossibile rialzarsi,
quella in cui non te ne frega più niente,
in cui ti arrenderesti volentieri, per una volta, alla debolezza.

"Ma sì, fammi a pezzi,
annienta queste membra e questi pensieri,
almeno troverò un po' di pace e di conforto.
E forse si volerà via leggeri, come piume tra le nuvole,
e forse la felicità sarà di nuovo dolce, 
senza più quel retrogusto amaro".



Ma mentre la mente vaga in questa direzione,
il corpo si ribella.

E' come quando tieni la testa per troppo tempo sott'acqua:

percepisci l'assenza di ossigeno
e tutto torna a lottare disperatamente 

per raggiungere la superficie; 
quello è il solo obiettivo.

...Finchè il corpo riemerge, 
la bocca si apre, 
si spalanca, 
inspira tutto ciò che può.
E l'aria affluisce nei polmoni,
il sangue torna a scorrere nelle vene.

Respiri di nuovo, 

sei vivo,
e non ti sembra vero.

Un'ebbrezza ti sospinge.

Finchè ti ritrovi di nuovo a riva,

e di nuovo

lo senti tutto il peso di quei panni zuppi, 
quando cerchi di rialzarti.

Aspetta.
Concediti di non avere fretta.
Il sole asciugherà i vestiti
e sarà tutto molto più semplice.


Ora, mentre non sai se piangere di felicità o di disperazione,

mentre la testa si interroga se gioire o pentirsi per avercela fatta un'altra volta,
il corpo si arrende sulla sabbia

e le narici inalano nuova aria.

Un vento fresco viene così a placare la mente inquieta,
e resti lì,
con la schiena a terra,
ad assaporare di nuovo quel sapore di sale,
il gusto delle lacrime che non hai pianto. 
 

 



 

mercoledì 18 dicembre 2013

Ricordi scomposti - II parte

...Ricordo quel giardino immenso, nel quale ci perdevamo giocando a nascondino.
Ricordo i filari di viti, da cui - nella stagione autunnale - coglievamo succulenti grappoli, gustando un sapore che non ho mai più riassaporato.
Ricordo quell'albero alto, su cui avevamo costruito la nostra casa con corde e assi di legno.
Ricordo il tavolo al centro del cortile, circondato da panche di marmo, su cui - nella mia fantasia - immaginavo si sarebbero seduti Biancaneve e i sette nani.
Ricordo le ginocchia sbucciate, quell'enorme bernoccolo, quando saltando da una panca all'altra avevo battuto la testa su un duro spigolo marmoreo, facendo tanto spaventare tutti.

Ricordo il rumore della ghiaia, scomposta sotto i nostri piedi mentre correvamo.

Ricordo le cene della vigilia di Natale, quando gli adulti, riuniti intorno al tavolo, parlavano e discutevano di chissà cosa.
Ricordo che con Piergiorgio - mio adorato cugino - sgattaiolavamo via silenziosi e, rifugiandoci nella sala superiore, ci preparavamo per l'esibizione.

Lui si sedeva sullo sgabello girevole, sollevava la copertura di legno, toglieva la pezza di velluto verde che copriva i tasti, e lanciandomi uno sguardo sorridente, annuiva e iniziava a suonare il maestoso pianoforte.

Lo guardavo incantata.

Le lunghe dita si muovevano rapidissime sulla tastiera, con abili "allunghi", ad afferrare anche gli ultimi tasti dell'accordo.
A volte il tocco era deciso, quasi un affondo, altre volte sottile e delicato, come una carezza.
Non leggeva lo spartito, Piergiorgio, era come se il pentagramma fosse impresso nella sua mente.

Rimanevo per alcuni minuti ad osservare incantata quella magia. 
Nel contempo lasciavo che le note mi avvolgessero, che la musica mi parlasse, mi rivelasse la sua natura, che fosse lei a dirmi che cosa voleva.
...poi - al momento giusto - quando ormai mi sentivo parte della melodia, iniziavo a ballare.
Non era la mente a dirigere il corpo: accadeva semmai il contrario.
Il ritmo era dettato dalla musica, che suggeriva i movimenti.
Braccia, gambe, busto, capo, si flettevano armoniosamente, così come armoniosamente le mani assumevano quella forma aggraziata che contraddistingue le pose della danza classica.

Mi sentivo felice e "padrona" dello spazio, avvolta da un'aura celestiale.
Ero nel mio mondo: in quello spazio sospeso tra il qui e l'altrove, nel quale ho sempre trovato la mia dimensione.

Ricordo quando, danzando, tornavo da scuola, quando la musica della natura che mi circondava risuonava nella mente, componendo poemi armonici da cui mi lasciavo travolgere.
Ho sempre amato quegli spazi "privati", in cui dialogavo con le foglie, gli alberi, il vento, invocando che mi sollevasse, che mi sferzasse con le sue folate, che mi facesse sentire viva, libera.
Libera, sì, sciolta da tutti i legami, dai vincoli, dalle convenzioni, dall'ordine imposto.



Ricordi scomposti - I parte

...Ricordo il sapore inconfondibile degli gnocchi al pomodoro della nonna.
Ricordo quelle agili mani, che impastavano con maestria patate e farina su un asse di legno che tornava puntualmente per l'occasione.
Ricordo l'entusiasmo con cui Nicola, Anna ed io davamo il tocco finale a quelle file perfette di palline impastate: la nonna ci concedeva il privilegio e l'onore di schiacciarvi sopra la forchetta, per conferire la tipica forma ai suoi capolavori.
Quando l'acqua bolliva, ci affacciavamo trepidanti intorno al fuoco, per assistere al tuffo e all'affondamento di quei gioiellini culinari.
E quando tornavano in superficie, era davvero una festa vederli riafferrati dalla schiumarola, adagiarsi fumanti nella marmitta di  porcellana bianca.
L'alchimia si compiva quando il sugo rosso si posava sinuosamente su quel letto caldo.
Una spolverata di Parmigiano dava il tocco finale a quel tripudio di colore e sapore.

"Pancia mia, fatti capanna!", annunciava papà tornando bambino, quasi a riprendersi, a rivendicare il suo ruolo di figlio.
A lui era riservato il posto a capotavola, mentre la mamma, con dolcezza, ci disponeva ai lati del tavolo, assicurandosi che fossimo seduti educatamente, in attesa di essere serviti.

Ricordo quella cucina, diversa dalla nostra perché più antica: conservava colori, sapori, odori che rimanevano per me inspiegabilmente intrisi di tracce di un passato, di una memoria della quale la nonna era preziosa custode.
Anche la casa dei nonni materni aveva questa particolarità.
C'erano foto in bianco e nero sui mobili, centrini ricamati, cristalli e gingilli d'argento sui comodini.
Non mancava mai, sul tavolo del soggiorno, un mazzo di fiori variopinti che il nonno coglieva nei campi, riportando un tocco di natura tra le mura domestiche.

Che cosa rendeva così particolari quelle case?

Ricordi di un'infanzia spensierata, in cui la dimora dei nonni era un luogo sicuro, accogliente, dove era concesso giocare a perdifiato, dove la merenda era sempre qualcosa di insolito e diverso rispetto a casa, dove tutti i nostri apprendimenti passavano dall'osservazione.

Figure sagge erano il nostro esempio: instancabili lavoratori, così rodati alla vita da non dare mai troppo peso alle preoccupazioni, ma sempre pronti ad affrontare ciò che la vita riserva.
Sotto i nostri occhi si disponevano, attraverso gesti quotidiani, tanti insegnamenti.

Di una nonna ricordo la femminilità, quando si pettinava e raccoglieva quei lunghi fili argentei in uno chignon che fissava alla nuca e le conferiva un'aria ordinata ed elegante.
Dell'altra ho in mente l'affaccendarsi ai fornelli, i suoi grembiuli, su cui appoggiavo la testa quand'ero stanca...
Ricordo le mani del nonno, quelle nocche evidenti segnate dall'operosità, quei palmi grandi che si poggiavano delicatamente sulla mia piccola testa, accarezzandola dolcemente.
Ricordo l'odore della carta dei giornali, che non mancavano mail.

.....


giovedì 12 dicembre 2013

Sogno

Ho sognato di allungare la mano
e accarezzare ancora il tuo volto.

Ho sognato di camminare ancora insieme a te.

Le strade s'illuminavano,
come quando danzavamo leggeri sull'asfalto,
e passando davanti alle vetrine,
sembrava si accendessero,
sotto i nostri sguardi.
...e la vita si colorava...

Mentre arrivavo trafelata,
sorridendomi mi aspettavi all'angolo
e aprendo il cappotto, come per magia,
mi allungavi un bicchiere di caffè caldo.

Le nostre mani,
gelate dal freddo
(entrambi rifiutiamo i guanti)
sono tornate di nuovo a sfiorarsi.

Sono mani che si assomigliano,
che cercano di ricreare la perfezione in ciò che fanno.

Hai detto qualcosa,
ma non sono riuscita a udirne il suono.

Vedevo le tue labbra muoversi,
ma la tua voce non giungeva al mio orecchio
Cercavo disperatamente di udirlo...
...il suono della tua voce.

Ma neppure il sogno mi ha concesso di riportarlo in vita.


martedì 3 dicembre 2013

Il treno

Sembra un fiume in piena quello che sta arrivando.
Frotte di ragazzi, con aria scanzonata vanno verso la scuola tenendosi sotto braccio, spingendosi, ridendo...come in un branco.

E' bello vederli solidali irridere la scuola, i professori, i genitori, il moroso o la morosa che li ha appena lasciati.

Si fanno compagnia in un'età che li fa sentire forti, ribelli e al contempo spaventati e impreparati a quella tempesta di sentimenti del tutto nuovi e potenti.

Sorrido con tenerezza al loro modo di sostenersi, di fare i saggi, talora i cinici, di fingersi "uomini vissuti".

Me li lascio alle spalle salendo sul TRENO.
 
Il paesaggio umano che mi accoglie è del tutto diverso.



SILENZIO.


Uomini e donne grigi, spenti. Ognuno è rinchiuso nel proprio corpo, nei propri pensieri.

Mi appaiono come piccoli istrici, ciascuno arrotolato su stesso, ciascuno separato dal resto da quella barriera di aculei.

Con amarezza noto l'assurda disposizione che questo popolo di viaggiatori ha assunto: ogni quattro posti, una persona.

Una paura di contagio sembra dilagare.

C'è forse paura che l'altro possa rivolgere una parola, uno sguardo, un gesto interrogante a cui non c'è voglia di rispondere.

Nessuno si siede accanto all'altro.
E sui moltissimi posti vuoti che rimangono, a sedersi sono solo i fantasmi, proiezioni della mente di quei viaggiatori.

Sono tentata di violare questa disposizione, questo tacito ordine che mi fa venire i brividi.

Mi siedo accanto a un signore.
Solleva lo sguardo, ritrae le gambe, avvicina le braccia al busto,
e si richiude come una lumaca nel proprio guscio.
China la testa sul cellulare, interlocutore privilegiato.

Non solleverà più lo sguardo, se non al momento di scendere, quando una voce metallica annuncia l'arrivo in stazione.

Si è reso conto di questo cielo? di questo sole? dell'incanto delle montagne innevate, illuminate dalla luce dell'alba? E soprattutto...si è reso conto di se stesso?

Chissà!

Rimango avvolta dal silenzio e dal mistero.

Dolci sentimenti mi attraversano,
venendo a placare le onde sferzanti dei miei tanti interrogativi.