venerdì 2 agosto 2019

Dolores Prato: "Giù la piazza non c'è nessuno".



Ci sono autori che sembrano entrare direttamente tra le pieghe della nostra anima. Scrivono di sé ma parlano di noi. Hanno uno stile, un linguaggio, una retorica che rispecchia esattamente l’incedere dei nostri pensieri. L’incontro con Dolores Prato è avvenuto tra le pagine di un libro ed è stato un incontro reale, veicolato da un testo, di cui non comprendevo il titolo, ma che già mi affascinava per la sua grammatica anticonvenzionale. 
Si tratta di un racconto autobiografico, che non ripercorre la vita intera, ma solo l’infanzia, quell’età in cui tutto si forma, in cui i sensi sono vivi, accesi, pronti ad accogliere il mondo, o a sentirne il bruciante rifiuto. 
Dolores (un nome che sembra racchiudere un destino) è adulta e al contempo bimba, vive nel continuo fluire tra l’esperienza infantile, la sua delicata ingenuità, la fervida immaginazione, e la consapevolezza di chi è cresciuto prendendosi per mano. Perché quando la mano altrui non arriva, quando il calore e l’affetto mancano, si diventa genitori di se stessi: le cose, gli oggetti, il paesaggio, le parole diventano compagni di viaggio, capaci di nutrire, curare, creare realtà alternative alla realtà stessa. “Le persone non mi parlavano, ma le cose sì”, scrive l’autrice. E così viva è anche la sua lingua, che si tinge degli accenti popolari, e ci espone ad una varietà di espressioni, specchio delle emozioni, in grado di creare uno spazio alternativo, irriverente, ribelle rispetto al linguaggio chiuso, ristretto, formale impartito tra le mura di un austero collegio. 
La lingua di Dolores è una lingua impastata con la terra, che trasuda la fatica, ma anche il piacere di vivere a contatto con le cose, con i sensi, con la natura. È una lingua del corpo e del sentire, prima che del pensiero logico e razionale, così distante da quelle sensazioni vere, autentiche, viscerali che la nostra autrice ci restituisce con “quell’ignoranza che intravede l’anima delle cose”. 
La sua fragilità, il suo essere ai margini del mondo, quel senso di esclusione con cui si apre l’autobiografia, è colmata dalla forza di un pensiero dirompente, dal bisogno impellente ed irruento di mettere per iscritto emozioni, immagini, paesaggi (interiori ed esterni). “Salto i verbi, come se qualcuno mi corresse dietro”, scrive. E non può fare altrimenti, Dolores, a cui il mondo viene incontro “sfogliandosi come un libro meraviglioso”.  

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